martedì 23 giugno 2020
I documenti del gruppo di esperti Onu sulla Libia rivelano la grande ipocrisia internazionale intorno a Tripoli, le cui autorità, possono platealmente permettersi di farsi beffa delle Nazioni Unite
Milizie sorvegliano una raffineria in Libia

Milizie sorvegliano una raffineria in Libia

COMMENTA E CONDIVIDI

I documenti del gruppo di esperti Onu sulla Libia rivelano la grande ipocrisia internazionale intorno a Tripoli, le cui autorità, sostenute sempre dall’Onu, possono platealmente permettersi di farsi beffe delle Nazioni Unite. È così che salta fuori la busta paga con il timbro del governo rilasciata a uno dei boss dei trafficanti di uomini. E le coperture concesse ai militari implicati nel contrabbando di petrolio, armi ed esseri umani. Atti ufficiali che già all’inizio del 2020 erano noti al Consiglio di sicurezza e a Paesi, come l’Italia, che in Libia mantengono interessi strategici rilevanti.

Documenti in cui gli ispettori Onu sono costretti a riportare risposte disarmanti. Come quando chiedono ai funzionari di Tripoli perché alcuni trafficanti, pur ufficialmente estromessi da incarichi pubblici, continuino invece a navigare a bordo delle motovedette libiche. La risposta? «Serve al morale dei guardacoste». Questi dettagli emergono dalla lettura degli allegati alla relazione del “Panel of experts”, il team internazionale incaricato dall’Onu di investigare sull’effettiva osservanza dell’embargo alle armi stabilito dal Consiglio di sicurezza e che regolarmente viene violato proprio da alcuni dei Paesi membri del parlamentino Onu. Occorre fare alcuni passi indietro. A ottobre dello scorso anno Avvenire rivelava la presenza del comandante al Milad, ai più noto come Bija, in Italia nel 2017 nel corso di alcuni incontri organizzati dall’Oim (l’agenzia Onu per i migranti) con visto concesso dal nostro governo per studiare l’esportazione dei centri di accoglienza italiani in Libia e ribadire le “buone relazioni” tra le due sponde del Mediterraneo. Ma adesso si scopre che sette mesi prima dell’inchiesta di Avvenire, nel febbraio 2019, gli investigatori Onu avevano interrogato proprio Bija e il suo capo nella milizia al-Nasr (che da il nome anche al più grande campo di prigionia ufficiale). Si tratta di Mohamed Kachlav.

Ecco cosa si legge nel dossier: «Mohamed Kachlav ha dichiarato di lavorare per la Pfg ( Petroleum facility Guard, ndr)». Si tratta della “polizia petrolifera” che sorveglia le attività intorno alla raffineria di Zawyah, la più grande del Paese, adiacente proprio alla prigione dei migranti. Kachlav, che con Bija ed altri è oggetto di interdizione da parte di Onu, Unione Europea e Dipartimento di Stato Usa, «ha confermato di ricevere ancora il suo stipendio dal Ministero della Difesa attraverso la Pfg. Dal 2014 ha il compito di mettere in sicurezza il perimetro del complesso petrolifero di Zawiyah». Non solo: lo stesso Kachlav con il suo clan ha inaugurato a fine 2019 un importante ospedale privato chiamato con il marchio del clan, “al Nasr”, ha anche mostrato agli esperti le sue buste paga controfirmate dalle autorità del governo di Tripoli nel suo ruolo di comandante della Pfg. Negli stessi giorni è stato sentito anche Abdurahman al-Milad, detto Bija. «Ha spiegato che dal 2013 – scrivono gli esperti – è responsabile dell’impianto portuale della guardia costiera del complesso petrolifero di Zawiyah». In altre parole, oramai da sette anno il petrolio esportato passa sotto il suo naso.

Compresi i milioni di barili che secondo gli investigatori Onu e i vertici militari europei di Eunavfor Med sarebbe chiaramente di contrabbando, perché sottratto proprio alla raffineria che la polizia di Kachlav dovrebbe invece proteggere. Incontrando gli osservatori internazionali Bija «ha affermato – si legge ancora – di aver salvato molti migranti e ha fatto riferimento al suo ruolo nel sequestro di diverse navi». Tuttavia «si è rifiutato di fornire la busta paga o qualsiasi altra documentazione ». Questo dettaglio per un momento ha fatto pensare che stesse bluffando. Che cioè non godesse più delle coperture del governo di Tripoli, ma volesse resistere al licenziamento mostrandosi agli inviati Onu come ancora in sella.

La conferma del bluff di Bija sarebbe potuta arrivare solo dalle autorità centrali. Ma proprio dal comando navale di Tripoli è arrivata la doccia gelata. Nessuna sconfessione. «Le autorità della Guardia Costiera hanno confermato che Abd Al–Rahman al-Milad (Bija) è stato sospeso dalle sue funzioni il 9 aprile 2018. Ciononostante, lo considerano uno dei loro uomini di punta e sottolineano il suo lavoro di salvataggio dei migranti». Il gruppo di esperti ha chiesto allora perché al-Milad lavorasse ancora sulle motovedette di Zawyah. Nella risposta c’è la migliore spiegazione del grande raggiro libico: «Egli è il supervisore di un piccolo porto situato all’interno del complesso petrolifero di Zawiyah. Le autorità della Guardia Costiera – riassume il Panel of experts – hanno spiegato che tali “supervisori” hanno l’autorità per combattere il traffico di esseri umani e che devono andare in mare occasionalmente per sostenere il morale del personale». A novembre l’Italia, a conoscenza di questi fatti e dopo che Avvenire aveva reso pubblica la visita “riservata” di Bija nel nostro Paese, ha rinnovato il memorandum d’intesa con la Libia. Non risulta che tra le condizioni poste per il rinnovo vi fosse l’effettivo allontanamento di personaggi accusati di gravi crimini economici (anche a danno di aziende italiane) e di violazioni dei diritti umani.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: