Il Concilio di Bologna. Fortune e tramonto di un sogno di riforma della Chiesa

Per la prima volta, un profilo critico del laboratorio bolognese che ha prodotto la più letta e influente storia a tesi del Concilio Vaticano II

di Sandro Magister




ROMA, 30 agosto 2005 – Tra le storie del Concilio Vaticano II ce n’è una che ha fin qui dominato il campo, in Italia e nel mondo. Sono i cinque volumi pubblicati in italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e russo tra il 1995 e il 2001 a cura di Giuseppe Alberigo, professore di storia della Chiesa all’Università di Bologna e direttore, nella stessa città, dell’Istituto per le Scienze Religiose.

Alberigo ha ora pubblicato, per un pubblico più vasto, una sintesi delle migliaia di pagine dell’opera maggiore. È un volumetto dal titolo “Breve storia del concilio Vaticano II”, edito in Italia dal Mulino.

Mentre l’opera maggiore è collettiva, scritta da decine di studiosi di tutto il mondo – ma pur sempre d’impianto fortemente unitario, con le introduzioni e le conclusioni di ogni volume scritte dal curatore –, questa sintesi è del solo Alberigo. Ha una forte impronta autobiografica. Utilizza i diari scritti all’epoca da sua moglie, Angelina Nicora. Accentra larga parte del racconto del Concilio sull’”officina” di studiosi che a Bologna ruotava attorno a don Giuseppe Dossetti (1913-1996), perito di fiducia del cardinale Giacomo Lercaro, uno dei quattro cardinali “moderatori” che presiedevano l’assise.

Questa convinzione d’aver non solo collaborato ai lavori conciliari, ma d’averne determinati gli indirizzi, era già di Dossetti. In una sua intervista pubblicata postuma nel 2003, addirittura Dossetti si disse convinto d’aver “capovolto le sorti del Concilio stesso”, grazie alla sua abilità di manovrare le assemblee maturata in gioventù, quand’era esponente politico.

Nella “Breve storia”, questo ruolo maieutico dell’”officina” di Bologna appare ancora più accentuato. E riguarda sia lo svolgimento del Concilio che la sua interpretazione.

Per Alberigo e i bolognesi il Vaticano II è indiscutibilmente da leggersi come “un concilio nuovo, cioè diverso da quelli della tradizione precedente”. Ove la novità è rappresentata dal suo essere “ancor prima un evento che una sede di elaborazione e produzione di norme”, una “nuova Pentecoste” ancor prima che “un insieme di documenti”: novità identificata in Giovanni XXIII, subito però vista tradita da Paolo VI, il papa che pure ha promulgato tutti i documenti conciliari, e dai suoi successori.

Su questa interpretazione si è appuntata di recente la critica di un cardinale di peso, Camillo Ruini, vicario del papa per la diocesi di Roma e presidente della conferenza episcopale italiana. Lo scorso 17 giugno, Ruini ha invocato “una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”. E ha liquidato così la linea di Alberigo e dei bolognesi:

“L’interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. È un’interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa”.

Sta di fatto, però, che i cinque volumi curati da Alberigo continuano a monopolizzare la storiografia sul Concilio Vaticano II e ad essere i più letti e consultati sull’argomento, in tutto il mondo. Fino a qualche tempo fa, l’egemonia della “scuola” di Bologna sull’opinione pubblica cattolica sembrava non avere rivali di pari influenza.

Che cosa, allora, fa dire a Ruini che essa sia divenuta “oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa”?

E prima ancora: cos’è stata e cos’è oggi l’”officina” bolognese di Dossetti e Alberigo?

La nota che segue è la prima risposta ragionata a queste domande, scritta da uno dei molti studiosi che hanno fatto parte per alcuni anni dell’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, per poi distaccarsene.

L’autore conosce quindi per esperienza diretta l’oggetto di cui scrive. Il testo è l’estratto di un saggio più ampio che egli sta preparando sul tema:


Istituto per le Scienze Religiose di Bologna. Promemoria da un compagno di cammino

di Pietro De Marco


In una nota sul “Corriere della Sera” dello scorso 7 agosto Peter Hünermann, professore di teologia dogmatica nell’università di Tubinga, paragona l’”officina” di studi religiosi creata a Bologna da don Giuseppe Dossetti e diretta per decenni da Giuseppe Alberigo a una Gelehrten-Schule, a un’alta “scuola di dotti”. Il Gelehrte evocato da Hünermann è proprio il dotto celebrato dal filosofo Johann G. Fichte in un suo famoso saggio del 1794.

La amichevole e lusinghiera caratterizzazione del lavoro dell’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna data dallo studioso tedesco, non senza la raccomandazione di proseguire con questo stile, si affianca ad altre immagini correnti dell’istituto bolognese, in particolare quella di esercitare un’egemonia sull’opinione pubblica cattolica.

Sarà importante, per una storia critica e autocritica della cultura cattolica italiana e forse europea, valutare in che misura l’istituto meriti la qualifica di Gelehrten-Schule, e quale sia o sia stata la sua effettiva egemonia nell’interpretazione e conseguente affermazione dell’eredità del Concilio Vaticano II. Ordino qui alcune idee.

* * *

I materiali raccolti in “L’officina bolognese, 1953-2003” – il volume con questo titolo pubblicato nel 2004 sui cinquant’anni di vita dell’istituto –, nonostante la dichiarata alta qualità scientifica del lavoro prodotto e l’imponente catalogo delle pubblicazioni, non avvalorano la qualifica di Gelherten-Schule. Sia questo volume come la successiva “Breve storia del concilio Vaticano II” di Giuseppe Alberigo, edita nel 2005 dal Mulino, appaiono piuttosto quasi un consuntivo autobiografico dell’autore e della moglie Angelina Nicora, con lo sguardo rivolto a Dossetti, alle origini e ai primi anni Sessanta.

Uno sguardo legittimo, da parte di protagonisti cui nessuno può negare una totale dedizione all’istituto. Ma una Gelehrten-Schule è altra cosa.

In realtà, le diverse generazioni che hanno passato anni nell’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna non l’hanno mai chiamato “officina”. Ma come “scuola di dotti” l’hanno vissuta quando vi appartenevano, e hanno continuato a osservarla e giudicarla da fuori.

Penso alla mia generazione, i borsisti entrati nella seconda metà degli anni Sessanta, e al nostro rapporto con la terna di professori “residenti” che guidavano allora l’istituto, Giuseppe Alberigo, Paolo Prodi, Boris Ulianich.

Cosa fosse un “dotto” ce lo indicava in quegli anni l’eredità di don Giuseppe De Luca. Nel 1951 egli aveva posto l’”Archivio italiano per la storia della pietà”, sua creatura, sotto l’egida di grandi maestri di ricerca e di spiritualità: André Wilmart, Henri Bremond, p. Joseph de Guibert. De Luca morì, troppo precocemente, nel 1962. Due veri “dotti” continuarono comunque, negli anni Sessanta, a proteggere nel gruppo bolognese la capacità di distacco critico dalla bruciante vicenda ecclesiastica e conciliare: Delio Cantimori e Hubert Jedin. Anche Cantimori morì troppo presto, nel 1966. Jedin, il grande storico del Concilio di Trento, è vissuto invece a lungo; ma poté influire sui bolognesi solo fino a quando le loro ricerche prevalenti non si allontanarono dalla originaria concentrazione sulla Riforma cattolica e gli studi tridentini.

Il Concilio incombeva, dunque, ma non sembrava allora irrealistico pensare che competenze filologiche e filosofiche, antichistiche e contemporaneistiche, linguistiche e paleografiche, trovassero valorizzazione entro un adeguato quadro di scienze religiose positive. I seminari tenuti nell’istituto da grandi studiosi formavano al buon metodo. Insomma, la comunità di ricerca che ho frequentato fino ai primi anni Settanta offriva ampie possibilità di esercitare pluralisticamente competenze rigorose. La Gelehrten-Schule era costituita e garantita anche da “tutor” di prima grandezza, di molte università non solo europee. A Hünermann sarebbe piaciuta, o forse l’ha conosciuta.


Oltre la “scuola di dotti”


Facciamo ora un salto di anni. L’immagine diffusa che conferisce autorità internazionale all’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna è oggi legata soprattutto alla sua “Storia del Concilio Vaticano II” pubblicata in 5 volumi e in più lingue tra il 1995 e il 2001. È l’immagine di una macchina efficiente di iniziative scientifiche mirate e sistematiche nelle discipline storico-ecclesiastiche: macchina apprezzata e temuta per la capacità di orientare pro o contro obiettivi pratici di politica ecclesiale.

L'istituto ha attribuito a sé il compito di una maieutica della Chiesa postconciliare. Il suo assunto ermeneutico di partenza – di estrema pericolosità in sede scientifica – è che il Concilio deve "subire una decantazione e perciò una essenzializzazione" creativa. Sta di fatto che tale lavoro ha alimentato l’identificazione dell’istituto con un fronte riformatore cattolico.

O meglio, con “il” fronte riformatore cattolico, in una accezione simile a quella di una “société de pensée” diffusa e latente. Per decenni, infatti, gli indirizzi bolognesi vengono recepiti e rilanciati un po’ ovunque, in Italia e nel mondo, presso gruppi anche molto distanti dagli uomini e dagli studi dell’istituto: gruppi politici e religiosi, laici ed ecclesiastici, di vertice e di base. Più che di un fronte compatto si tratta di una costellazione interconnessa dei mille ambienti – nonché degli infiniti tracciati individuali – che intendono assumere nel postconcilio la rappresentanza delle cosiddette tesi "forti" del Concilio Vaticano II, visto costantemente in pericolo d’essere tradito o per lo meno di restare incompiuto.

All’individuazione delle tesi “forti” della novità conciliare (eclesiologica, pastorale, ma anche civile-sociale, ad esempio con la “Chiesa dei poveri” enunciata dal cardinale Giacomo Lercaro di cui Dossetti era l’esperto di fiducia) è dedicata costantemente l'attività dell'istituto bolognese. Questo orientamento tenace ha avuto dei costi. All’obiettivo di riformare la Chiesa le diverse generazioni di giovani studiosi che si sono avvicendati nell’istituto hanno tutte prestato, in una prima fase, attenzione e passione, trasformatesi poi in riserva critica, in rigetto, in abbandono.

Già in un’assemblea del dicembre 1973 dell’Associazione per lo Sviluppo delle Scienze Religiose (che reggeva l’istituto dal 1970) venne alla luce il dissidio tra il progetto e il tipo di ricerca voluti soprattutto da Alberigo, e le istanze di altri, non solo della mia generazione. Avevamo davanti il modello di una Gelehrten-Schule aperta, per definizione, capace di armonizzare storici ed esegeti, teologi del dogma e filosofi della religione, patrologi e politologi. Penso che questo stile da Department of Theological and Religious Studies non fu raggiunto forse per colpa di tutti; anche di quanti via via abbandonarono, per seguire strade così difformi da sembrare confermare l’accusa di non essere personalmente adatti a perseguire le finalità ultime dell’istituto. Certamente, essi non avrebbero prodotto una “Storia del Concilio Vaticano II” come quella alla fine pubblicata dall’”officina” bolognese.

Ma l’esito più grave della crisi dei primi anni Settanta, grave perché situato su quel terreno storico – l’età moderna e le sue istituzioni religiose – che era quello della competenza propria e originaria della “scuola” bolognese, va considerato, a mio avviso, l’impermeabilità dell’Istituto per le Scienze Religiose alle linee della successiva, quasi trentennale, ricerca di Paolo Prodi. I risultati innovativi delle sue opere (da “Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna”, 1982, a “Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto”, 2000) circa la relazione intrinseca, nelle idee e negli istituti politici, tra Chiesa ed età moderna, sono rilevanti anche per il dibattito contemporaneo su Chiesa, modernità e laicità. Avrebbero evitato, tra l’altro, il clima moralistico e omiletico-politico che ha avvolto le attività dell’istituto negli anni Novanta.


Dopo la crisi, la “Storia”


Intanto, cos’è avvenuto nei primi anni Ottanta, una volta che l’istituto ha subito un’ulteriore grossa emorragia di studiosi? Dopo la drammatica ultima fase di Paolo VI, si è già data la novità del pontificato di Giovanni Paolo II. Il papa polacco, estraneo e indecifrabile per i bolognesi, fa loro concentrare tutte le energie su un’unica opera dimostrativa, monumento elevato a difesa del significato primo della loro esistenza, appunto la “Storia del Concilio Vaticano II”: un’impresa in cui non vi sono domande nuove da porre, non vi è niente di decisivo da scoprire o riscoprire, tutto solo da meglio documentare e argomentare.

L’opera persegue ad un tempo una opposizione ai processi di “restaurazione” attribuiti al pontificato di Karol Wojtyla, e il tentativo di riproporre persuasivamente al papa il vero “canone” del Concilio, il suo senso autentico.

Di questo clima era stato espressione il “Memorandum per il Sinodo straordinario” che l’istituto aveva proposto ai vescovi del mondo nel 1985. In esso leggiamo (con la parola chiesa sempre minuscola e col richiamo all’Evangelo secondo il gergo riformato): “La posizione profonda del concilio, indicata in apertura da Giovanni XXIII e condivisa dall'enorme maggioranza dei padri, [consisté nel cogliere che] era maturato il momento di riprendere la lettura escatologica della storia, superando la miopia del ‘profetismo di sventura’. Per vivere una ‘nuova Pentecoste’ la chiesa ha bisogno di scrollarsi di dosso tante incrostazioni secolari, che sembrano ornamenti, ma sono solo residui polverosi di un passato che non può tornare. È il rinnovamento interno e interiore intorno alla Parola di Dio obbedita nella fede che può rendere capace la chiesa di vivere con semplice autenticità nella storia, con la sola protezione della povertà dell'Evangelo”.

Ci si può chiedere che rapporto sensato vi sia tra, da un lato, un lavoro storiografico (e di edizione di fonti, di lessici, di strumenti) assai tecnico, nonché centrato prevalentemente sull'istituzione e su uomini dell'istituzione cattolica, come quello praticato dall’”officina” bolognese, e, dall’altro, questo visionarismo della nuova Pentecoste e della povertà dell'Evangelo, e questo incontrollato linguaggio: “incrostazioni secolari”, “residui polverosi”.

È dunque un parametro di storiografia normativa che presiede sempre più a queste pratiche di ricerca secondo il bisogno.

Il metodo “positivista” prevalentemente adottato nell’istituto è in effetti piuttosto quello di una scienza applicata e strumentale: la ricerca termina quando quello che si intendeva accertare è considerato in qualche modo accertato, anche perché ogni altra mossa conoscitiva, ogni complessità ulteriore potrebbero pregiudicare l'utilizzabilità pratica, teologica ed ecclesiologica, del risultato ottenuto.

La questione della teologia va precisata. L'Istituto per le Scienze Religiose produce pochissimo lavoro teologico in senso proprio, anche se tutto il suo lavoro potrebbe considerarsi “teologia come sapere storico” delle Chiese e sulle Chiese, fin dagli anni Sessanta. Il vero contatto con il mondo teologico europeo è con gli ambienti di eredità “conciliare” critica, ed è di tipo militante. Il suo orizzonte teologico finisce con l’essere lo stesso della rivista “Concilium”, la cui vicenda e il cui declino sono anche quelli delle culture “conciliari” e della loro egemonia.

La convinzione utopizzante della fine della teologia professionale a vantaggio di una “teologia dal basso”, prodotta dalla “comunità cristiana”, ha tenuto lontano l’istituto anche dal concreto lavoro della teologia italiana, se si eccettua la collaborazione di Giuseppe Ruggieri.


Egemonia residuale


L'egemonia che si può attribuire – fino a un passato recente – all'Istituto per le Scienze Religiose non è propriamente l'egemonia di una scuola storiografica come tale. Sia il mondo accademico che l'opinione colta hanno riserve sulla produzione storiografica dell'istituto. La ritengono segnata da tesi precostituite e da un accentuato “uso politico” ecclesiale, senza per questo negarle qualità e utilità.

Egemonia si distingue da governo formale e legittimo perché fa perno sulla conquista di fatto delle istituzioni fondamentali di una società: i suoi simboli, i suoi valori, i suoi saperi decisivi. Nell’ambito delle culture cattoliche europee esercitare un'egemonia ha significato dettare diagnosi e prognosi dei bisogni della Chiesa, o almeno influire significativamente su di essi.

Una di queste prognosi normative è stata confermata molto di recente, ad esempio, dal secco "non andrà avanti così a lungo" applicato all’eredità del pontificato di Giovanni Paolo II nel libro “Chiesa madre chiesa matrigna” scritto nel 2004 da Alberto Melloni, stretto collaboratore di Alberigo nell’istituto.

La diagnosi soggiacente è che le trasformazioni e i risultati del pontificato di Wojtyla siano mera apparenza e abbiano occultato i veri mali e i veri bisogni della Chiesa, che inesorabilmente riprenderanno spazio e urgenza drammatica con il suo successore.

Una convinzione del genere è stata molto diffusa, con versioni sia di destra che di sinistra fondate su letture opposte. La sua forma ideologicamente qualificata, una vulgata sostenuta anche dall’”officina” di Bologna, riconduce però tutti i mali ai tradimenti postconciliari della “reformatio ecclesiae” voluta dal Concilio.

Ora, indurre in altri e conservare in se stessi una simile opacità di giudizio di fronte alle straordinarie trasformazioni intervenute nella Chiesa e nel mondo negli ultimi trent’anni è stato certamente l’atto di protezione di un’egemonia, per l’istituto bolognese. Ma in che misura riuscito? Nella Chiesa, la capacità d’influenza è legata anche ad alleanze nella curia romana, con teologi, con vescovi in Italia e in altri paesi. Se si guarda a queste alleanze, l’influenza nella Chiesa dell’Istituto per le Scienze Religiose appare oggi molto ridotta. E questo declino è avvenuto proprio negli anni in cui l’istituto ha lavorato alla sua “Storia del Concilio Vaticano II”.

Il lavoro alla “Storia” è stato in realtà l’alto contributo che l’istituto bolognese ha dato all'ortodossia “critica” postconciliare. Lo sforzo è stato imponente, ma ha chiuso l’istituto su se stesso, ha ulteriormente ridotto il suo orizzonte problematico, l’ha immobilizzato nell’incapacità di aggiornare le sue analisi.

Proprio mentre l’istituto produceva e concludeva il suo estremo atto “magisteriale” con pretesa egemonica – la ricostruzione di un Concilio-paradigma per il rinnovamento della Chiesa – la mappa cattolica mondiale mutava.

Oggi la lontananza delle nuove sensibilità religiose dai paradigmi contestativi e pauperistici degli anni Settanta ed Ottanta s’è fatta più marcata. La volontà di controllare e incanalare gli effetti indesiderati del postconcilio è più forte e ragionata, da parte delle gerarchie e di molto laicato organizzato. Parole d’ordine e partiti della stagione conciliare sono ormai solo di ostacolo al confronto tra Concilio e storia contemporanea e alla sua conseguente lettura.

Non è più attuale nemmeno l’elaborazione da parte dell’”officina” bolognese” di un rapporto volutamente tacito tra Chiesa e politica: una rinuncia alla scienza politica cattolica che ha portato i suoi uomini a partecipare in ordine sparso alle vicende della sinistra italiana, nella logica della sinistra, un esempio tra tanti di “invisibilizzazione” politica dei cristiani nell’ultimo mezzo secolo.

Soltanto per una minoranza, insomma, la “Storia” prodotta a Bologna costituisce oggi un modello per una mobilitazione. Il ruolo-guida internazionale e la rete di legami in Europa e nelle Americhe che l’istituto ancora mantiene sono prove di un’egemonia solo residuale. Questo favorirà una nuova Gelehrten-Schule?

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Pietro De Marco è professore di sociologia della religione all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

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Il sito web della fondazione che presiede all’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna:

> Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII

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L’ultimo libro del direttore dell’Istituto per le Scienze Religiose, sintesi dell’opera maggiore da lui diretta, la “Storia del Concilio Vaticano II” edita in sette lingue tra il 1995 e il 2001:

Giuseppe Alberigo, “Breve storia del Concilio Vaticano II”, il Mulino, Bologna, 2005, pp. 200, euro 10,50.

Altri due libri, di poco precedenti, molto rappresentativi degli orientamenti dell’istituto:

Alberto Melloni, “Chiesa madre, Chiesa matrigna. Un discorso storico sul cristianesimo che cambia”, Einaudi, Torino, 2004, pp. 160, euro 7,00.

A cura di Giuseppe Alberigo, “L’officina bolognese, 1953-2003”, EDB, Bologna, 2004, pp. 252, euro 18,50.


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In questo sito, sulle critiche del cardinale Camillo Ruini alla linea storiografica di Alberigo e colleghi:

> Vaticano II: la vera storia che nessuno ha ancora raccontato (22.6.2005)

Sulle riforme della Chiesa lanciate dall’”officina” bolognese alla vigilia dei conclavi del 1978 e rilanciate nel 2004:

> Papa monarca, addio. Il programma dei progressisti in conclave (3.1.2005)

Su come don Giuseppe Dossetti ha descritto il proprio contributo al Concilio Vaticano II:

> Concilio “capovolto” e Opus Dei. Un inedito bomba di Giuseppe Dossetti (1.12.2003)

Sull’interpretazione del Concilio da parte dell’”officina” di Dossetti e Alberigo:

> Concilio Vaticano II. Una storia non neutrale (9.11.2001)

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30.8.2005 

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